REPERTO#01



REPERTO#01

foto Egidio Magnani

con Elvira Frosini  e  Giacomo Calabrese
drammaturgia e regia    Elvira Frosini
disegno luci Ilaria Patamia
foto Alberto Medri, Egidio Magnani
produzione Kataklisma (2006)

Reperto#01 è stato finalista al festival “Le voci dell’anima-incontri teatrali 2006”, Teatro della Centena, Rimini.



Due performer, un uomo e una donna, sono immersi con gli spettatori in uno spazio surreale completamente ricoperto di cellophane. La donna scompare progressivamente: viene fagocitata dallo spazio stesso. L’uomo continua nel suo cercare, si perde in un labirinto, oscilla tra il fossile ed il Narciso, costruisce il suo teatrino, armeggia freddamente con utensili e simulacri, guarda il pubblico attraverso una videocamera inesistente. Lo spettacolo procede per quadri, immagini, piccole folgorazioni, microuniversi che fanno immaginare o ricostruire diverse ipotetiche storie. E’ uno spettacolo sul farsi forma, su l’imminenza di un salto antropologico.

Reperto#01 è concepito come l’attraversamento di un luogo-non luogo, un tempo sospeso. Lo spazio è immerso in materiale plastico, materiale che avvolge anche lo spettatore. Il progetto è concepito come un susseguirsi di quadri, di immagini, di azioni che si accendono e si sospendono, un reticolato di visioni sospese, niente che sia quotidiano eppure con un riverbero che può essere un passaggio tra l’onirico e il reale, tra l’immagine e l’uso che ne facciamo.  È un fossile futuro la scena di materiale artificiale, industriale, chimico come il cellophane. Luogo di transito, di discesa, in cui il gesto è reperto esso stesso, la cronologia è una eventualità.

Reperto#01 pone la sua ricerca nella relazione tra la visione da parte dello spettatore e la creazione di senso. Nella parte finale lo spettatore è osservato, guardato dall’attore attraverso una videocamera immaginaria posta su un cavalletto aperto al centro della scena. Questa inversione del guardare, questa specularità del guardare, essere guardati, mostrare è il punto focale e la chiave del lavoro ed uno dei punti focali del problema della rappresentazione. Il tempo è continuamente sospeso: si crea un nuovo tempo. Le immagini create sulla scena sono al contempo in equilibrio fra il non essere naturalistiche e non essere del tutto astratte, ricercano una dimensione in equilibrio tra l’onirico, il rituale, agiscono recuperando qualcosa di basico ed “originario” tra l’emozione, la relazione dei corpi, la connessione e il sistema dei segni.
In tal senso Reperto#01 è una sorta di “ricerca archeologica” tra l’immagine, i corpi, i segni, i gesti, nelle specifico ambito della rappresentazione. Lo spettatore è chiamato a costruire senso e connessioni emotive attingendo al proprio immaginario e all’immaginario comune nel senso ampio del termine, e dunque in qualche modo nel Tempo e nella Storia. Reperto#01 è a-storico e a-logico nell’impianto, ma pesca volontariamente nella realtà evidente della presenza dello spettatore che guarda.


Video promo Reperto#01





Alfio Petrini
amnesiavivace.it
foto Alberto Medri
I protagonisti dello spettacolo Reperto 01, regia e drammaturgia di Elvira Frosini, che ho visto al Kataklisma Teatro di Roma, sono un uomo e una donna, ma la donna praticamente non c’è. Nasce in uno spazio spermatico e ben presto nello stesso spazio muore. Resta come pulsione della memoria. Presenza fantasmatica. Unità della dualità spezzata, separata, negata. Un reperto archeologico è lo spazio plastificato – del passato, forse, o del futuro -, che avvolge surrealmente anche lo spettatore. Un reperto archeologico è la figura maschile, che cerca, ma non si sa bene che cosa. Verrebbe da dire l’unità nella diversità, ma l’unità è impossibile se la diversità è negata. L’uomo si mostra per quello che è diventato o per quello che diventerà? Il tempo sospeso è quello dell’attesa o della memoria? Della perdita o della speranza? Della stasi del movimento o del movimento inutile della stasi? L’uomo osservato appare deprivato della sua interezza. Non ha anima. Non ha sangue. Non si capisce come possa avere pensiero. È colto nel momento in cui è avvenuta la perdita o nel momento che precede l’acquisizione della piena bidimensionalità umana? Forse prefigura davvero “l’imminenza di un salto antropologico”. Di certo, teatralizza pensieri ed immagini, suggerendo con l’azione – non priva di cliché - la teoria del metateatro. L’uomo è impegnatissimo a costruirsi il suo teatrino. Suo perché privato. Privato perché circoscritto, cioè limitato ad uno spazio che è reperto lattiginoso, opaco, e in cui è avvolto e raggelato anche l’osservatore. Passaggi improvvisi, significati di rimbalzo, improvvisazioni folgoranti, frammenti di storie che dicono e non dicono senza produrre mistero. Il passaggio da una situazione all’altra non ha però il valore di transito (che implica un processo di trasformazione della materia), ma caratterizza un fatto teatrale fine a se stesso – a tratti anche narcisistico – colto nel suo farsi non esplicativo, e proprio per questo capace di stimolare lo spettatore a trarre dalla visione deduzioni individuali. Lo spettacolo è dunque circolare e aperto. Circolare perché potrebbe essere ripetuto all’infinito. Aperto perché soggetto a letture diversificate. In tal senso, mi sembra legittimo considerare la chiave di lettura del teatro che parla della vacuità di tanto teatro contemporaneo come nucleo tematico centrale della messa in scena, affrontato in modo impressionistico dalla regia. Su questo versante, però, devo aggiungere che il passaggio dell’uomo dalla condizione di osservato a quella di osservatore non ha comportato uno scatto formale significativo, così da rendere l’invenzione ricca di buoni propositi, ma di scarsi risultati poetici. Perché è questo che si deve cercare, e trovare, in uno spettacolo dal vivo. Poesia ed emozioni.


Simone Nebbia
Teatroteatro.com
foto Alberto Medri
Cellophane. Entrare in una sala di teatro e scoprirla avvolta nel cellophane fa pensare che forse il teatro è proprio qui: costruire una placenta di emozioni, un luogo immobile, estraneo a qualsiasi corruzione, che permetta di cogliere l’essenza, sempre così nascosta. Viene da pensare se la plasticità dei corpi che appaia la plasticità del pensiero sia qualcosa che siamo in grado di portarci fuori di qui, oppure resterà sotto questa teca mobile ma esclusiva, come sono queste pareti rivestite. Questo il sentimento alla base del Reperto#1, portato in scena da Elvira Frosini e Giacomo Calabrese. Due corpi, un vento dall’esterno. Voci mute di labbra prominenti. Si aggiunge lo stridio degli uccelli via via più assordante: ecco allora che l’emozione progressiva si alza libera da fraintendimenti, perché senza parole l’emozione è libera, è vera, nostra, incoercibile. Poi il movimento che asseconda l’incedere della musica e non è chiaro se ne sottolinea l’impatto emozionale oppure lo provoca; tuttavia quel che conta è l’importanza della semantica attraverso la sintonia tra corpo e musica, che non è sintonia tecnica ma emozionale: lasciarsi guidare e non tentare di imbrigliare la melodia. Su questo piano l’assenza della parola: prima prova il più facile dei conteggi e non riesce, poi un discorso a frammenti di sillabe, incomprensibile: vogliono così testimoniare che con la musica abbiamo armonia perché appunto libera come i nostri pensieri, mentre la parola è meccanismo, tecnica, per cui non corrisponderà mai alla policromia dei sentimenti. La regia e la drammaturgia sono di Elvira Frosini che interpreta assieme a Giacomo Calabrese: molto sottile il gioco delle luci, dal buio all’abbaglio accecante, crudo, delle luci accese, poi la musica che riesce a dire con i volumi; una regia volta all’elasticità, a sottolineare il movimento flesso dei corpi, davvero brillante e personale. Su tutte una scena ci viene da esempio: Calabrese tira fuori tre cartoni, io penso a finte tele, dove va a disegnare prima una casetta infantile e l’ammira parlandone muto come di un capolavoro, sulla seconda un albero semplice che ritiene un capolavoro e ne sottolinea il genio con movenze da grande artista, sulla terza disegna una porta, ci fa il buco della serratura e ci guarda dentro, poi prova a sfondarla e non si apre, infine chiede al pubblico di farlo per lui: è l’artista che entra nell’opera, talmente convinto del suo talento da scambiarla per realtà. Poi un braccio teso con un guanto nero, raccoglie corpi di bambini e li accatasta malamente, ricoprendoli di qualcosa che faccia uniforme il loro annientamento, che li renda nullità: il crimine poi diviene voyeurismo, da un cavalletto rimira il misfatto. Mi accorgo con ritardo che dietro questo percorso nel male c’è la favola dei tre porcellini. Quale miglior modo per dire che lo straniamento, il potere del significato, sono il mezzo più efficace per comunicare? È così che il teatro riesce a stimolare l’intelligenza, non assecondando la piattezza come invece fa il mero intrattenimento.

foto Alberto Medri

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